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The man from Utopia

The man from Utopia

foto di Drughino Yari

di Mario Rossi

Da un lato correva il Tevere, dall’altro una manifestazione politica della destra pop. Avvertivo più la presenza del fiume che quella vaga di persone, vessilli e slogan. E anche se sapevo di avere a fianco il fiume, ciò che più sentivo era la resistenza dei pedali. La seconda cosa che avvertivo era la bellissima sensazione di autonomia motoria che non può mai lasciarti quando cammini, corri, nuoti o pedali. Terzo lo schifo per le automobili, quarto l’aria sul viso, quinto il mio respiro, sesto il Tevere ed i platani del Lungotevere, settima e ottava due turiste nordiche, nove il mio battito cardiaco, dieci la mancanza del sole e l’uggia delle nuvole, undici la manifestazione, poi i piccioni e infine l’immondizia lasciata a terra dai manifestanti.

Seguii i lungotevere; ogni cosa scorreva, una pedalata dopo l’altra, e mi accorsi dopo molta strada che i manifestanti erano stati sostituiti dai consumatori in fase avanzata di shopping. Intanto i pedali opponevano resistenza, l’aria sul viso, il respiro ed il battito, le nuvole. Una pedalata dopo l’altra ero arrivato.

Il giorno dopo stesso tragitto, da casa al lavoro in bicicletta, tutto scorre e il movimento lo faccio io.

Dove c’era stata la manifestazione si stava preparando un grande evento pubblicitario, un lancio in anteprima planetaria di un prodotto, un grande prodotto, in voga, di moda. Però non so quale fosse. Tir dopo tir parcheggiati, ancora strade chiuse col nastro, telespettatori fuoriusciti dagli appartamenti per vedere materializzarsi dal vivo uno di quegli spot che davano forma alla loro coscienza. La cosa che però più attirava la mia attenzione era la resistenza dei pedali; era a quella che ero più attento, per cambiare rapporto quando serviva, senza perdere ritmo.

In fondo pensavo ai fatti miei.

Uno scooter rischiò di falciare un pedone, lo scooterista filò come se non gli importasse nulla di quello che sarebbe potuto accadere, la sua mente non era in grado di distinguere tra un videogioco e la realtà, tra un suo simile e l’ostacolo fisico frapposto tra il suo ego ed il formaggio. Le strade pullulavano di subumani come quello.

Uscì il sole e me lo sentii subito addosso. Mancava un mese all’estate, la immaginai. Lasciai i lungotevere, passarono i negozi ai lati della strada. Auto, sole, vento, nervosismo nell’aria: ognuno chiuso nella sua auto, appena uscito dalla tana dotata di schermi del computer e della tv, ognuno ottuso nei fatti suoi, nell’isolamento, nell’esclusione dagli altri e degli altri, ognuno un nemico di se stesso e della sua vita, per star dietro agli affari suoi.

Anch’io pensavo agli affari miei.

Il giorno successivo era il giorno dell’evento pubblicitario, la magnifica propaganda. Io non lavoravo perché era sabato, evitai di passare nella zona di quello schifo, me ne andai per piste ciclabili. Incontrai altri esseri umani, tutti noi sentivamo forte l’oppressione dell’isolamento da appartamento, io ero più fortunato di tanti altri che prendevano la bici solo di sabato e domenica e vivevano l’isolamento anche in macchina per tutta la settimana. Ma ognuno in fondo pensava agli affari suoi e a quelli della sua famiglia.

Il lunedì i lungotevere in bici per andare al lavoro, il vento, poca pioggia ma avevo il kayway, stavano smontando le strutture dell’evento che aveva imbambolato centomila persone, tutte pressate nello stesso luogo, eppure tutte chiuse in se stesse a cercare di guadagnare un metro, di infilarsi. Un’automobile infilò il muso alla mia destra, cercando di usare una fila di parcheggio vuota per sorpassare una bicicletta, per portare la sua bara avanti, secondo quell’istinto dei topi che corrono per accaparrarsi il formaggio, ma spesso trovano un muro, lui trovò una Opel regolarmente parcheggiata, rinunciò, altri topi gli impedirono di rientrare, dovette aspettare e perse posizioni, urlando imprecazioni al destino che non lo aveva dotato di armi atomiche. Arrivai al lavoro.

Seguì una settimana di sole, correvo in bici con gusto, anche se il retrogusto era l’amarognolo dello smog, con il bel tempo i ciclisti aumentarono subito. Ne incrociavo di continuo. A destra ci fu una manifestazione di centromediasinistra, i vessilli avevano colori più vivi dell’altra, ma le persone scorrevano ugualmente vaghe, così gli slogan. Almeno non lasciavano troppa immondizia. Mi piaceva avvertire la presenza dei platani sul Lungotevere. Dopo di loro venivano i negozi e lo shopping, poi il mio lavoro. Mi piaceva andare al lavoro, un po’ meno lavorare, ma andarci mi piaceva proprio.

Il sabato e la domenica frequentavo le piste ciclabili, isole di vita umana, in quel mondo di topi.

Decisi allora, di sera, ero in casa e pensavo a qualcosa che sembrava emergere dalla mia coscienza, qualcosa che sembrava divenire necessario man mano che affiorava alla mente; decisi di sfidare i topi, di attaccarli sul loro terreno, la tangenziale. Per stabilire le nuove regole: loro erano zavorra, io la forza vitale.

Per stare al mondo basta un tetto, cibo sano per il corpo e per la mente e l’autonomia di movimento sia fisico sia mentale. Tutto il resto è zavorra. Le automobili sono zavorra, ciò che non è necessario è zavorra, il lavoro che serve a produrre più del necessario è zavorra, l’individualismo, l’isolamento e l’esclusione sono zavorra, la disuguaglianza è zavorra. Salendo sulla tangenziale volevo dire questo.

Mi preparai, indossai il caschetto e la mascherina contro lo smog, il kayway in caso di pioggia anche se c’era bel tempo.

Nessun automobilista di quella generazione si sarebbe aspettato che a quel semaforo la mia bicicletta avrebbe tirato dritto per salire sul cavalcavia della tangenziale. I topi iniziarono a rodersi il fegato e sfiorarono con i paraurti le mie terga sudate, suonarono i loro clacson, mi guardarono con odio profondo, inveirono sbavando. Sapevano che avrei demolito il loro tempio e avrei dato inizio alla fine del loro mondo dei topi se fossi arrivato alla fine della tangenziale.

Sentii nei muscoli una forza che non avevo mai sospettato di avere, che sembrava non appartenermi del tutto, una forza che varcava i secoli per arrivare a me. Oggettiva, si questo è il termine, sembrava una forza oggettiva: la forza della storia mi sosteneva, di un cambiamento storico.

La resistenza dei pedali, l’aria, la luce del giorno. Volavo veloce tra clacson isterici e umiliati, urla di rabbia sconfitta, era la corsa tra topi ad avere la macchina più costosa ed a stare davanti alla macchina che segue quella precedente. Vi ero immerso e non ero un topo, ero l’unico umano, avevo già vinto solo per questo.

Pedalavo sulla tangenziale, circondato dalle carcasse di un mondo in malora. Un uomo solo al comando, tutto il resto topi.

Sentii scampanellare sotto di me, una bici passava sulla strada sottostante. Sentii scampanellare ancora, quel campanello sembrava seguirmi. Sentii aggiungersi un secondo campanello, ed anche quello mi seguiva. Non potevo vedere di sotto e continuavo a correre tra le auto che mi superavano pericolosamente. Iniziò una discesa, lo scampanellio era cessato. Mi lanciai in velocità, le auto ci mettevano più tempo a superarmi. Sentii lontano ancora uno scampanellare, poi un grido che veniva dalla strada di sotto. Un altro grido, erano incoraggiamenti. Corsi con quanta forza avevo, la discesa mi lanciava ad una velocità folle, le auto smisero di superarmi.

Poi vidi la fine della sfida, vidi spalancarsi la vittoria. Nella puzza di marcio che esalava da quelle carcasse costose si stagliò nitida una colonna immobile di traffico in tangenziale. Era ferma a meno di quattrocento metri da me, le auto intorno iniziarono a rallentare, io pedalai più forte, finì la discesa ed iniziò la colonna, sentii urla di entusiasmo e suoni di campanelli venire dalla strada fuori dalla tangenziale. Automobilisti affranti premevano il naso sul vetro del finestrino vedendomi filare tra le auto ferme, i bambini sui sedili posteriori erano pieni di meraviglia, i loro genitori cercavano di stigmatizzare l’evento. Io sapevo che il loro mondo era crollato. Un topo aprì lo sportello per fermarmi ma lo evitai. Urla d’insulto mi inseguirono, allora i topi uscirono dalle auto e cercarono di assalirmi, come topizombi. Non potevo arrendermi, me lo dicevano i campanelli che venivano dalla strada di sotto e che stavano aumentando e sembravano avvicinarsi. Dovevo correre veloce tra le auto ferme, dovevo falciare i topi che volevano fermarmi, avrei dovuto portare con me una scimitarra. I campanelli suonarono ancora più forte e mi seguivano. Vidi i topi indietreggiare, spaventarsi, intrufolarsi nelle loro tane di latta. Rividi i loro sguardi disperati dietro i finestrini. Avevo dinanzi di nuovo i corridoi liberi tra le auto ferme.

Insieme ai campanelli si levavano adesso grida di evviva, urla festanti. Mi veniva istintivo voltarmi per vedere se era dietro di me che gridavano, ma mancavano ancora chilometri alla fine della tangenziale e non dovevo distrarmi. Però il suono dei campanelli aumentava, aumentavano le grida, non potevo non voltarmi. Prima che mi decidessi a guardare alle mie spalle, una bici da corsa mi sorpassò sulla corsia di emergenza. I topi schiumavano di rabbia inerme nella loro fine, mi voltai. Ero seguito da centinaia di bici arrembanti che venivano dietro di me tra le auto ferme come un onda di maremoto, le mountain bike saltavano addirittura sui tetti e sui cofani, gli automobilisti che si lamentavano venivano presi a fischi e sberleffi. La marea di bici mi raggiunse e mi avvolse in uno scampanellio che era ormai entrato in risonanza con la storia. Il maremoto dilagò e raggiunse la fine della tangenziale e la fine del consumismo automobilista.

La mia bici oggi è in un museo ed io sono il principale eroe vivente della nuova nazione ambientalista ed anticonsumista. Gli anni passano, per l’età avanzata vado con la bici elettrica; vedo i giovani lottare per porre un freno all’utilizzo e alla produzione sconsiderata di biciclette, vogliono che vengano limitate allo stretto necessario le attività e le proprietà umane per ridurre gli sprechi di risorse e di energia. E’ proprio quello che volevo dire a tutti mentre salivo sulla tangenziale in bici, tanti anni fa.

Spero di vivere abbastanza per vedere il mondo che i giovani d’oggi stanno cercando di costruire. Io so, perché lo so, che facendo uno sforzo per vedere oltre i muri delle dinamiche che sono fuori di noi, facendo uno sforzo per oltrepassare ciò che sembra insuperabile, si può realizzare qualsiasi utopia.

la foto è di Drughino Yari

3 commenti su “The man from Utopia

  1. Paolo
    29 Maggio 2012

    Bello, alcuni tratti commoventi.
    Bravo
    Paolo De Felice

    • mario rossi
      29 Maggio 2012

      Grazie Paolo, il tuo commento è commovente, sinceramente. Grazie

  2. billobike
    7 ottobre 2021

    L’ha ripubblicato su billobikeblog.

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Questa voce è stata pubblicata il 27 aprile 2012 da in invenzioni.