storie in bicicletta

autonomiapedali

Prima andavo in macchina

di Mario Rossi

Comprai la bicicletta per portarla in vacanza e andarci coi miei figli. Loro però, da quando sono adolescenti, non vogliono più farsi vedere in giro con i genitori. Così per otto anni la bicicletta è rimasta sommersa tra le cose sprecate della cantina.

Un tempo in cui ho pensato raramente a lei solo con la nostalgia dell’infanzia dei miei figli o della mia.

L’avevo immaginata come possibilità di locomozione urbana una sola volta, quando ero sceso in cantina per cercare le spazzole di ricambio dei tergicristalli che avevo comprato ma che non riuscivo più a trovare. Fu un pensiero di un momento, un’immaginazione che fu allontanata dalla considerazione della realtà.

Questo successe, credo, il quinto degli otto anni che la mia bicicletta ha passato in cantina.

Le rare biciclette che si aggiravano per le strade mi sembravano delle anomalie di sistema, elementi privi di senso compiuto, non classificabili, quindi non reali.

Io e la mia famiglia abitiamo a Roma in un palazzo di dieci piani in un quartiere immerso nel cemento e totalmente ricoperto di automobili, come tutti i quartieri.

I miei figli fanno il liceo e vanno a scuola con il motorino di cui condividono malvolentieri l’uso.

Io da un anno vado in bici, ovunque, sempre.

E’ stato un giorno in cui, tornando dall’ufficio, ero fermo e chiuso nell’auto che procedeva con un movimento alternato bipolare, organizzato ad un livello sovrumano metropolitano. Ovvero l’auto si muoveva diretta dal traffico più che da me, penosamente e continuamente si fermava; lei era incanalata e io ero fermo nell’abitacolo.

Qualcosa balenò nello specchietto di destra e attirò la mia attenzione. M’era sembrato troppo agile e leggero per essere una moto o uno scooter. Non poteva essere un pedone: troppo velocemente era scomparso dallo specchietto. Lo cercai nello specchietto centrale e non c’era, in quello di sinistra e c’era stato fino a quell’istante perché lasciò al mio sguardo lo stesso balenio di prima.

Mi sorpassò a destra prima che riuscissi a vederla in uno dei tre specchi dell’auto. Era una ciclista. Filava sorpassando tutte le auto che procedevano lente come la mia, sorpassava gli scooter nevrotici che rimanevano incastrati.

Noi conducenti di auto e scooter eravamo fermi a bordo dei nostri veicoli condotti dal traffico. Lei produceva pedalando il suo spostamento e decideva se starsene tra le auto o passare per il parcheggio, se condurre la bici a mano sul marciapiede per sfruttare il semaforo verde della strada che incrociava la sua direzione.

Lei era autonoma, libera, essenziale, agile, silenziosa: puro movimento. Noi eravamo polli ipertrofici maleodoranti in batteria. Spostati da fermi. Inermi carrozzati.

Mezz’ora dopo posteggiai pensando che lei era arrivata a destinazione da un pezzo, da un pezzo aveva fatto la doccia, da un pezzo aveva fatto cose che io avevo perduto nelle code e poi cercando parcheggio; probabilmente lei viveva il triplo delle vite che vivevo io.

Scesi in cantina tra gli oggetti sprecati: erano tanti, accumulati negli anni; il lavoro di qualcuno, l’erosione di risorse, l’inquinamento del processo di produzione, e ora giacevano sprecati insieme alla bicicletta, sprecata anche lei. Da qualche parte avevo la pompa.

Sentii il bisogno di portarla fuori.

Giocavo a calcetto una volta al mese, avevo qualche energia da spendere, anche se capii subito che i quadricipiti non erano pronti. Gradualmente, mi dissi, senza fretta.

Feci il giro del quartiere, come uno in semilibertà vigilata, poi rientrai. Nessuna auto mi travolse, ma avvertii una certa insofferenza provenire dall’interno di quei loculi o abitacoli, forse per la mia altezza eccessiva sui pedali. Avvertii anche qualche suono di clacson, ma non me ne curai. Mi riproposi di riprendere la bici l’indomani, per un altro giro.

Ma l’indomani non potei riprendere la bici per quel fenomeno di blocco doloroso dei muscoli la cui causa viene di solito attribuita al famigerato acido lattico.

Tornando a casa dal lavoro, in auto, speravo di rivedere la ciclista, ma non la vidi. Di sicuro era arrivata a destinazione, qualunque fosse la destinazione, qualunque fossero il suo tragitto e i suoi orari, ancor prima che io superassi il primo ingorgo. Arrivava prima a prescindere e a priori.

Ripresi la bici dopo tre giorni e feci ancora il giro del quartiere. Poi la presi la domenica, arrivai in centro e tornai stremato. La presi ancora e bucai una ruota.

Così la bici tornò a stare in cantina e ci rimase un mese.

In auto, nel tratto in cui l’avevo vista quella volta, pensavo alla ciclista che certamente non avrei mai più rivisto.

Un pomeriggio, tornato dal lavoro, tirai fuori la bici dalla cantina e la portai nell’officina di biciclette più vicino. Il meccanico riparò la foratura in un minuto. Ripresi la bici. Anche il giorno dopo, anche la domenica, e quella dopo.

Qualche auto, quelle dentro cui c’erano i più invidiosi della mia altezza in sella, della mia sfida al gregge inscatolato, della mia emancipazione conquistata su un veicolo da duecento euro, anziché i ventimila spesi da loro per rimanere polli in batteria, quando ne aveva la possibilità, mi sfiorava pericolosamente per sfogare la rabbia da complesso di inferiorità.

Poi presi uno spavento vero. Un automobilista che aveva lo stop mi vide arrivare, ma nella sua testa iporealista una bicicletta non rientrava tra i veicoli circolanti e quindi mi valutò irreale, attraversò l’incrocio nel momento in cui passavo e mi colpì, per fortuna leggermente. Caddi. Protestai, ma quello continuava a non considerare la bici un veicolo, così non capiva come avevo potuto non far passare lui anche se aveva lo stop. Ebbi voglia di riempirlo di botte, non lo feci. La bici tornò in cantina.

In auto, io fermo, l’auto in coda, avevo nostalgia, pensavo alla bicicletta, al fatto che avevo preso un buon allenamento in poco tempo, al fatto che magari di domenica qualche volta l’avrei potuta prendere ancora.

Poi pensavo all’automobilista idiota e avevo il rimorso di non averlo menato. Non sarebbe stata una cosa civile, non sarebbe stata una cosa ben fatta, ma avrebbe riscattato una piccola parte dell’idiozia con cui sono fatti la quasi totalità dei miei concittadini. Avrei dovuto ammazzarlo per riscattarne una parte appena percettibile, tanta era l’idiozia in circolazione. Avrei dovuto ammazzare la quasi totalità dei miei concittadini perché il riscatto fosse accettabile.

Nel traffico, chiuso nell’abitacolo, mi guardavo intorno con una sconosciuta sete di sangue. Balenò nello specchietto di destra qualcosa che poteva essere la lama di una mannaia. Balenò anche nello specchietto di sinistra. Guardai al centro. Solo baleni, non si vedeva nulla di reale. Provai una sensazione già provata: quel senso di contatto con qualcosa di irreale, qualcosa che pensavo che non avrei mai più incontrato perché ovunque arrivava prima che qualsiasi altra cosa partisse da qualsiasi luogo.

Sfrecciò a sinistra e mi superò tra la colonna di destra e la colonna di sinistra del traffico, inseguita da scooter da settanta cavalli in crisi d’identità. Li distanziava a ogni specchietto evitato. Lei era più veloce di qualsiasi pensiero, invidia, idiozia, rancore, imbottigliati nel traffico. Non avevo visto il suo viso la prima volta, non lo avevo visto questa. E a quel punto era sicuramente arrivata alla sua destinazione.

Il pomeriggio stesso comprai un caschetto da bici, il più efficace antistronzi per ciclisti. Non scesi in cantina, aspettai l’indomani.

L’indomani fu puntuale. Al mattino, con l’ascensore, invece di fermarmi al piano terra  mi fermai in cantina. Uscii in strada indossando il caschetto e salii sui pedali.

Andai al lavoro in bicicletta, dodici chilometri dentro Roma. Ci misi la metà del tempo che impiegavo con l’auto, ricerca del parcheggio esclusa. Arrivai aspettandomi come minimo una maglia gialla.

E’ passato un anno da quel giorno. Vado al lavoro in bici tutti i giorni, quando piove esco un po’ prima. Vado in bici dappertutto.

La ciclista non l’ho mai più veduta. E’ stata irreale: un segno, forse un angelo. Se finissi sotto un autobus sono sicuro che non arriverebbe un’autoambulanza, ma lei per condurmi nel paradiso ciclista.

9 commenti su “Prima andavo in macchina

  1. Giovanni Bavutti
    13 Maggio 2012

    gran bell’articolo, ma un’imprecisione. Il dolore muscolare del giorno dopo NON E’ acido lattico! Quello viene smaltito entro 20-40′ dopo lo stimolo che lo provoca. Il giorno dopo sono DOMS!

    • mario rossi
      13 Maggio 2012

      Giovanni, grazie del complimento e dell’osservazione. Ho scritto volutamente “quel fenomeno di blocco doloroso dei muscoli la cui causa viene di solito attribuita all’acido lattico”, perché nel senso comune, da cui il personaggio della storia (un sedentario che riscopre la bici) attinge le sue conoscenze di medicina sportiva, il fenomeno è attribuito all’acido lattico.
      Il tuo commento è quanto mai adeguato e mette in evidenza un punto importante della consapevolezza ciclista.

  2. bikediablo
    18 marzo 2013

    Bel racconto Mario…
    ribloggo sperando che possa servire a far evolvere tante altre persone.

    http://biketoworkday.blogspot.it/2013/03/prima-andavo-in-macchina.html

    marco

    • mario rossi
      27 marzo 2013

      Grazie Marco

  3. Paolo Macchioni
    27 marzo 2013

    Bell’articolo, le riflessioni prima dell’uso indiscriminato della bici sono identiche a quelle che sono passate per la mia mente. Ho sempre odiato rinchiudermi in auto, per questo la lascio sempre a mia moglie, io sono sempre andato in moto, poi la voglia di far muovere le gambe anziché il polso mi ha fatto salire in sella alla bici da corsa appesa ad un chiodo e da li sempre in bici!!!

    • mario rossi
      27 marzo 2013

      Grazie. In effetti, mi sa che capita così quasi a tutti i “risvegliati” (naturalmente il termine è ironico)

  4. Alessandra Perletta
    19 novembre 2013

    ho preso la patente tardi perchè devo essere sincera a me le auto non piacciono.Ma un giorno ho dovuto perchè i miei figli dovevano essere accompagnati a scuola allo sport,dagli amici ecc ecc.Il mio ruolo era:fare l’autista.L’ho fatto per cinque anni dopodichè i marmocchi sono cresciuti ed io sono andata una mattina bellissima a Porta Portese e mi sono letteralmente innamorata della mia attuale bicicletta.Da allora non guido più,non ho problemi nel cercare parcheggio,non devo mettere benzina,arrivo prima delle persone in coda,saluto tutti,ammiro le cose che prima non vedevo e mi sono dimagrita.

    • mario rossi
      19 novembre 2013

      Grazie tanto Alessandra per questa testimonianza che porta la realtà nel mio racconto di fantasia.

  5. billobike
    7 ottobre 2021

    L’ha ripubblicato su billobikeblog.

Lascia un commento

Informazione

Questa voce è stata pubblicata il 24 aprile 2012 da in invenzioni.

Navigazione